venerdì, aprile 05, 2013

Il problema rifiuti


  Marino Ruzzenenti
                                         


Discarica o  “termovalorizzazione”,  una falsa alternativa


L’ennesima emergenza campana ha rilanciato il mito della “termovalorizzazione” come soluzione efficiente del problema rifiuti. Brescia, con il suo grandioso inceneritore dell’Asm (Azienda dei servizi municipalizzati), è stata riproposta dalla gran cassa dei media nazionali come il Modello per una corretta e moderna gestione dei rifiuti.
Effettivamente l’impianto di Brescia fu ideato e realizzato esplicitamente per porsi come apripista  della svolta a livello nazionale  verso l’incenerimento[1], in “alternativa” alla consolidata pratica del “tutto in discarica”. A tal fine, attorno all’inceneritore di Brescia, fin dall’inizio, vennero convocati eminenti esponenti della scienza accademica ed istituzionale impegnandoli a certificare l’eccellente performance della nuova soluzione a “tecnologia complessa”. Ma ad un’analisi critica attenta, sono legittimi alcuni interrogativi.



La cosiddetta “termovalorizzazione” è davvero un’alternativa
Quella scienza mobilitata dalla lobby dell’incenerimento si è dimostrata indipendente ed attenta al bene comune, cioè agli interessi generali della popolazione presente e futura?
Da qui l’interesse in questa sede del “caso inceneritore Asm di Brescia”.

La strategia illusionistica del cosiddetto “sistema integrato”

Primo protagonista dell’operazione Asm fu l’ingegner Paolo Degli Espinosa, autorevole esperto dell’Enea, ma anche membro del Comitato scientifico di Legambiente, capace quindi di offrire il prestigio della “scienza” insieme al marchio “ambientalista”. Fu lui ad elaborare all’interno della Commissione tecnico-scientifica, costituita nell’estate del 1991 da Asm[2], il cosiddetto “sistema integrato” per la gestione dei rifiuti solidi urbani,  anche definito con la metafora del “doppio binario” (“modello” copiato poi in tutti i Piani rifiuti che indicano come sbocco l’incenerimentoe sostanzialmente fatto proprio dal “Decretone ambientale”[3] del ministro Matteoli del passato governo Berlusconi): un binario, da privilegiare, costituito dalla riduzione, dalla raccolta differenziata e dal riciclaggio in una prima fase, entro il 1997, ipotizzato al 36%, elevato successivamente al 50%; il secondo destinato all’incenerimento della “parte secca dei rifiuti non altrimenti riciclabile”, con recupero di energia. Il “sistema integrato” poneva apparentemente in ordine di priorità gli obbiettivi classici di una corretta impostazione (pur con la controversa fase dell’incenerimento): “ridurre la produzione di rifiuti e dove ciò non sia possibile, separarli, riciclarli, recuperarne il contenuto energetico e alla fine smaltirne correttamente i residui”[4], parole d’ordine su cui si volle fondare il “patto ambientalista” con la città, che vedeva nelle 266.000 tonnellate di rifiuti all’anno da destinare alla combustione il limite massimo di equilibrio del sistema.

Come sono andate in realtà le cose

L’inceneritore progettato da Degli Espinosa risultò in realtà di dimensioni quasi doppie (circa 500.000 t/a a cui nel 2004 si aggiunse una terza linea, fin dall’inizio predisposta, per un totale di 800.000 t/a). La raccolta differenziata certificata dall’Osservatorio  della Provincia di Brescia (non quella gonfiata di Asm)  è pari al 33,22% nel 2006[5], inferiore all’obiettivo del 35% previsto per il marzo 2003 dal vecchio decreto Ronchi e assai lontano da quelli fissati dalla nuova normativa (45% al 31 dicembre 2008 e 65% al 31 dicembre 2012)[6]; ma, ciò che più conta, è stata annullata dal continuo aumento del rifiuto pro capite prodotto (grazie all’assimilazione spinta degli speciali)[7], passato da kg/die 1,24 nel 2005 a kg/die 1,69 nel 2006, per cui  a Brescia in 10 anni il rifiuto indifferenziato è rimasto sempre lo stesso, mai intaccato dalla RD: era Kg/die pro capite 1,10 nel 1995, sostanzialmente come nel 2005 (1,09) e nel 2006 (1,11)[8], pressoché uguale a quello avviato allo smaltimento in Campania, Kg/die 1,19[9].
Va segnalato che laddove, come nel Consorzio Priula di Treviso,  si opera davvero una raccolta differenziata di qualità, con il “porta a porta” e la tariffa puntuale[10] che premia i cittadini virtuosi, il rifiuto pro capite indifferenziato, ovvero  la “parte secca dei rifiuti non altrimenti riciclabile” è circa Kg/die 0,20, meno di un quinto di quello di Brescia e con un rifiuto prodotto in totale pari a kg/die 1,00, addirittura inferiore a quello bresciano avviato allo smaltimento, ovvero all’inceneritore, che deve rimanere elevatissimo perché si traduce in tanti “bei soldini” per Asm. Insomma è ampiamente dimostrato che l’inceneritore ha annullato la raccolta differenziata, con buona pace del cosiddetto “sistema integrato” elaborato dall’ingegner Paolo Degli Espinosa.
Ma il rifiuto dei grandi cassoni stradali che viene avviato all’inceneritore è davvero la “parte secca dei rifiuti non altrimenti riciclabile”, come promesso dal super esperto dell’Enea?
È la stessa Asm che certifica che cosa va all’inceneritore: 
Secondo un’analisi svolta nel 1997, i rifiuti dei cassonetti grigi del Comune di Brescia hanno la composizione tipica [seguente]: 30% di umidità, 25% di ceneri, 28% di carta, cartone [e legno], 7% di plastiche, 8% di metalli, inerti e vetro.[11]
Intanto un 30% di umido, ovvero di organico, è palesemente in opposizione alla “parte secca”, oltre a rappresentare un incredibile spreco energetico (può bruciare l’acqua?) e di materia preziosa come compost per restituire sostanza organica ai terreni agricoli; inoltre carta, cartone, plastiche, vetro e metalli sono materiali evidentemente predisposti al riciclaggio.

La favola del “recupero energetico” e dei “gas serra evitati”: sussidi a pioggia per gli inceneritori

A questo punto entra in campo un nuovo protagonista, il professor Gian  Paolo Beretta, esponente accademico, con il compito di certificare come l’incenerimento dei rifiuti sia una tecnologia ecologicamente valida, meritevole quindi di essere finanziata con denaro pubblico per compensare i benefici che l’ambiente ne ricaverebbe, in termini di emissioni climalteranti evitate e di energia rinnovabile impiegata in sostituzione di quella fossile. Per questo Asm conia un termine assolutamente nuovo per nominare l’inceneritore, “termoutilizzatore”, rimasto copyright esclusivo di Asm, per cui nel resto d’Italia la lobby dell’incenerimento ha dovuto inventare un altro eufemismo, “termovalorizzatore”.
Lo studio del professor Gian  Paolo Beretta, ordinario di fisica termica dell’Università di Brescia è apparentemente convincente[12] e si basa su dati “scientifici”, che considerano per tonnellata di rifiuti quanta CO2 produce una discarica (kg/t 690), quante sono le emissioni dell’inceneritore con la combustione  (Kg/t 1070), quanta CO2 viene però evitata con il recupero energetico (Kg/t -760), quanta CO2 è riassorbita da fotosintesi (kg/t - 860) essendo i rifiuti inceneriti per l’80% vegetali (sic!). Il risultato finale sarebbe che l’inceneritore, per tonnellata di rifiuti bruciati eviterebbe emissioni di CO2  pari a 1240 kg/t[13] rispetto alla discarica. Analogamente, reiterando il confronto  con la discarica da cui non si recupera pressoché nulla, il nostro professore certifica i vantaggi energetici dell’inceneritore, a quell’epoca funzionante con “sole” 265.000 tonnellate di rifiuti: 178 GWh di energia elettrica[14] e 46.000 tonnellate equivalenti di petrolio risparmiate[15]. Lo studio del professor Beretta venne presentato nel 2000 ad un convegno internazionale, frutto di un’elaborazione a più mani insieme ad un dirigente di primo piano della stessa Asm, l’ingegner Bonomo.[16]
Andrebbe subito contestato il dato sull’80% vegetale del rifiuto incenerito, perché, in realtà la componente vegetale utile alla combustione (l’umido, ovviamente, non lo è), secondo i dati stessi di Asm sopra riportati, sarebbe pari al 28%. Quindi già lo stesso inceneritore produce di per sé un surplus di gas serra, stimabile in alcune centinaia di milioni di tonnellate di CO2. Il problema è che, oltre all’inesattezza sopra rilevata, il calcolo è basato su un presupposto del tutto inconsistente, come abbiamo ampiamente dimostrato, cioè che l’inceneritore sia alternativo alla discarica, mentre invece l’inceneritore è alternativo alla raccolta differenziata ed al riciclaggio. Corre l’obbligo solo di ricordare che l’inceneritore di Brescia produce ogni anno 180.000 tonnellate di rifiuti speciali, in forma di scorie e polveri,  di cui 30 mila pericolosi, mentre, se si applicasse a Brescia il “modello Priula”, i rifiuti da smaltire sarebbero circa 100.000 tonnellate. Ma per l’inceneritore si dovrebbero conteggiare anche i 5 miliardi di m3 di aria inquinata, anch’essa “rifiuto”, pari a circa 3 milioni di tonnellate (almeno 800.000 solo di CO2), per cui un inceneritore andrebbe considerato in realtà,  come con un involontario lapsus freudiano è stato denominato dall’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Brescia, un “impianto di termogenerazione di rifiuti [sic!]”.[17]
È un’evidenza questa difficile da contestare, e che inficia alla radice lo studio del professor Beretta.
Ed è un po’ penoso che la ricerca scientifica accademica non si avveda di questo macroscopico abbaglio e si presti a sostenere una propaganda tanto palesemente infondata.
Il confronto, invece, va ovviamente compiuto con la raccolta differenziata ed il riciclaggio. Qui  dobbiamo ricorrere innanzitutto a studi europei ed internazionali per avere dei dati attendibili.[18]
Lo studio europeo, che copre 15 stati membri e un orizzonte temporale 2000-2020, analizza unicamente gli impatti di CO2, a flusso costante di rifiuti delle diverse tecniche di trattamento confrontando alcuni scenari (dal massimo riciclaggio, al riciclo e compostaggio,  alla discarica con recupero di biogas e all’incenerimento con “recupero” energetico) e giungendo alla conclusione che “la raccolta separata alla fonte, seguita dal riciclaggio per carta, metalli, tessili, plastiche e compostaggio della parte biodegradabile, genera in assoluto il più basso flusso di gas serra […] dall’analisi dei quattro scenari europei considerati, quello di massimo riciclo e quello di riciclo e compostaggio comportano le migliori performance complessive rispetto alla produzione dei gas serra”, notevolmente superiori agli altri due scenari.[19]
Una conferma viene anche da un’elaborazione di Ambiente Italia[20] e da studi compiuti negli Stati Uniti che giungono sostanzialmente ad analoghi risultati[21].
Sulla base di questi studi, l’ingegner Massimo Cerani, ricercatore indipendente[22], ha dimostrato come il “modello Priula” (riduzione del rifiuto a 1 Kg/die pro capite, e 75% di raccolta differenziata avviata al riciclaggio) applicato al “caso” di Brescia, comporti un vantaggio, rispetto all’incenerimento, di circa 1 milione di tonnellate annue di CO2 evitate[23].
In conclusione, anche rispetto ai gas serra l’inceneritore Asm, se confrontato, come deve essere, con il riciclaggio, non solo non “va in direzione del protocollo di Kyoto”[24], come sostiene Asm, ma è una macchina estremamente dannosa all’ambiente, per emissioni di grandi quantità di CO2 che potrebbero essere evitate con una corretta gestione dei rifiuti. Considerazioni analoghe si possono trarre anche per l’energia ricavata, se correttamente confrontata, non con la discarica, ma con il riciclaggio.
Sulla base dei dati Asm, il rendimento energetico rispetto al potere calorifico presente nei rifiuti trattati sarebbe del 24%[25], da cui però andrebbe sottratto il consumo energetico per l’impianto di trattamento fumi, per la mobilizzazione dei rifiuti in entrata ed in uscita, ecc. ecc. Si tratta di una macchina per produrre energia con il calore a bassissima efficienza, meno della metà di una moderna centrale turbogas a ciclo combinato, capace di un  rendimento almeno del 55%.
Anche per quanto riguarda il recupero/risparmio energetico del riciclaggio l’elaborazione di Ambiente Italia[26] e lo studio statunitense già citato[27] giungono ad analoghi risultati, dimostrando come il vantaggio del riciclo sull’incenerimento è mediamente tre volte maggiore, in termini energetici.
Sulla base di questi studi l’ingegner Cerani ha ricavato un valore di risparmio energetico derivante dallo scenario del “Modello Priula”, applicato a Brescia, pari a 1600  GWh annui, a fronte di una produzione di energia da incenerimento con recupero energetico nell’impianto di Asm Brescia Spa di meno di 500 GWh annui tenuto conto delle perdite e degli autoconsumi e considerando i soli rifiuti urbani inceneriti[28]. Insomma, anche in questo caso un vantaggio a favore del riciclaggio di oltre 1000 GWh, l’equivalente, per dirla con la propaganda Asm[29], dei consumi elettrici domestici di quattro città come Brescia e di 300 mila tonnellate di petrolio!
Ciononostante lo studio del professor Beretta è diventato la Bibbia e non si è manifestata a tutt’oggi una qualche resipiscenza, neppure di fronte a una simile mole di evidenze, documentate sulla base di dati inoppugnabili, relativi ad un decennio di funzionamento dell’inceneritore Asm di Brescia. Anzi questo studio è ancora oggi il supporto “scientifico” alla propaganda di Asm per cui il proprio inceneritore avrebbe permesso, ad esempio nel 2007, “un risparmio energetico di 150 mila tonnellate di petrolio e la mancata immissione in atmosfera di 470 mila tonnellate di anidride carbonica”  e avrebbe generato “570 milioni di chilowattora di elettricità”[30], pari all’illuminazione di due città.
Ma soprattutto è sulla base di questo genere di “studi scientifici” che Asm e la lobby dell’incenerimento hanno potuto convincere i decisori politici e i mass media che l’incenerimento dei rifiuti è “la” soluzione del problema, vantaggiosa per l’ambiente e per fronteggiare la penuria energetica, quindi meritevole di essere lautamente assistita da copiosi finanziamenti pubblici. Così, prontamente, l’allora ministro delle attività produttive Pier Luigi Bersani, già nel 1999, emanava un decreto legislativo che considerava "fonti rinnovabili", tra gli altri, "la trasformazione in energia elettrica dei rifiuti organici ed inorganici o di prodotti vegetali"[31]. Ed il sostegno economico a questa tecnologia sarà rilevantissimo, con un premio sul prezzo dell’energia prodotta del 200%! (In sostanza un KWh prodotto con i rifiuti viene pagato, con i soldi dei cittadini versati in bolletta, tre volte il prezzo di mercato).

 Questa è anche la dimostrazione più clamorosa che si tratta di un impianto assolutamente antieconomico, se non fosse lautamente finanziato con denaro pubblico sotto forma di incentivi per le energie rinnovabili, detti Cip6. Si tenga presente, tra l’altro - scandalo che si aggiunge a scandalo -, che i contributi Cip6 concessi all’incenerimento dei rifiuti sono i più elevati in assoluto, equiparati al fotovoltaico, pari 203,93 €/MWh rispetto a 143,78 €/MWh concessi agli impianti eolici e a 151,65 €/MWh agli impianti idroelettrici[32]. In questo modo, tra l’altro, il nostro Paese ha di fatto ammazzato nella culla il bambino delle energie veramente rinnovabili (solare e derivati) a cui ancora nel 2006 è stato destinato un misero 11% delle risorse pubbliche, contro il 18% all’incenerimento dei rifiuti e il 71% al termoelettrico da residui di raffinazione e petrolio[33].

 I Cip6, in dieci anni,  sono stata una vera manna per l’inceneritore di Brescia:

 1999: 49.394 milioni di lire;

2000: 59.693 milioni di lire;

2001: 74.649 milioni di lire

[totale dal 1999 al 2001: 183.736 milioni di lire = 94.892.000 di euro];

2002: 38.133.000 euro;

2003: 41.475.000;

2004: 55.315.000;

2005: 60.303.000;

2006: 63.419.000;

2007: 22.585.000 (1° trimestre l’intero gruppo)

 Dalla metà del 2004 entra in funzione la terza linea: per le prime due linee si possono calcolare mediamente, dal 2002 al 2007, circa 40.000.000 di euro all’anno per 5 anni e mezzo:  220.000.000 in totale (dal secondo trimestre 2007 dovrebbe essere terminato il contributo per le prime due linee e continuare solo quello per la terza linea)[34].
Le entrate Cip6 per le prime due linee sono dunque pari a circa 315 milioni di euro, rispetto ad un investimento per l’impianto, dichiarato da Asm, di circa 180 milioni di euro (sarebbero di più, circa 200 milioni, ma vanno dedotti i costi strutturali per la predisposizione della terza linea). L’impianto, per quanto concerne le prime due linee, dunque, risulta ripagato con denaro pubblico quasi due volte l’ammontare dell’investimento.

La scienza mobilitata per certificare l’innocuità per l’ambiente dell’incenerimento.

Parlare delle emissioni di una macchina inutile e che produce solo sprechi economici, energetici ed ambientali, sembra in verità assurdo.
Se non serve, perché perdere tempo in discussioni su quanto e se inquina?  Tuttavia, poiché il tema sembra appassionare diversi luminari della scienza, non ultimo il professor Umberto Veronesi[35], dobbiamo  occuparcene.
Fin dall’inizio l’inceneritore Asm fu celebrato per emissioni pressoché vicine allo zero. Anzi, poiché sostituirebbe, grazie al teleriscaldamento, migliaia di caldaie private più inquinanti, l’inceneritore pulirebbe addirittura l’aria di Brescia. Così titolava un giornale locale:  L’assessore Brunelli [dei Verdi nda] in visita all’impianto. Asm: aria più pulita col termoutilizzatore.[36]
Dunque l’inceneritore era da poco entrato in funzione che arrivò l’autorevole approvazione dell’Istituto Mario Negri: “Uno studio del famoso centro farmacologico promuove a pieni voti il termoutilizzatore […]. È ‘ pulito’ il termoutilizzatore Asm di Brescia”.[37]
Sennonché il “famoso centro farmacologico” proprio rispetto all’incenerimento non si presentava certo come Ente indipendente e al di sopra di  legittimi sospetti di essere “di parte”. Già nel 1994, con tempestività esemplare, dopo un anno dalla decisione di Asm di costruire l’inceneritore, battezzato, come si è detto, per l’occasione “termoutilizzatore”, promuoveva con la Fondazione Lombardia per l’Ambiente del prof. Antonio Ballarin Denti (attore, quest’ultimo, che ricomparirà più avanti) un convegno internazionale  con il titolo significativo “termoutilizzazione dei rifiuti”.[38]
Perché non vi fossero dubbi sul “marchio” Asm apposto al convegno scientifico, la relazione centrale era tenuta dallo stesso presidente della municipalizzata bresciana, ingegner Renzo Capra.[39]
Forse fu anche in seguito a quel convegno che l’Istituto Mario Negri sarebbe stato chiamato, come  struttura privata a surroga dell’inadempienza pubblica,  per misurare periodicamente (due volte all’anno) le emissioni di microinquinanti al camino dell’inceneritore di Brescia, misurazioni effettuate, ovviamente, nelle migliori condizioni di esercizio. Questo istituto è certamente autorevole, ma il suo “prendere parte” nel caso specifico venne confermato dalle posizioni che il suo animatore ed ispiratore assunse pubblicamente schierandosi proprio a sostegno degli inceneritori. Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri, è infatti tra i firmatari del manifesto "Galileo 2001 per la libertà e la dignità della Scienza” in cui si bolla di “oscurantismo” e “fondamentalismo ambientalista”, tra l’altro, ogni posizione che contrasta gli inceneritori come soluzione per il trattamento dei rifiuti o che si oppone alla proliferazione delle grandi infrastrutture ed al ritorno all’energia nucleare.[40] Ciò che risulta grave, in questa vicenda, è che il controllo delle emissioni più problematiche (diossine, PCB e metalli pesanti) dell’inceneritore più grande d’Europa, collocato in pieno centro urbano, sia rimasto appannaggio di una struttura privata in aperta violazione di quanto disponeva a suo tempo la Delibera autorizzativa.  Questa, infatti, prescriveva alcuni strumenti molto precisi tesi a garantire un controllo sulle emissioni reali e sulle ricadute ambientali delle stesse, insomma sugli “impatti futuri” dell’impianto, decidendo “di demandare, per quanto di propria competenza, all’Ente responsabile per il servizio di Rilevamento dell’inquinamento atmosferico di Brescia la verifica ed il controllo dell’adempimento da parte dell’azienda di quanto riportato nel deliberato, mediante la costituzione di apposita struttura tecnica qualificata”[41]  e che  “la struttura di controllo dovrà effettuare con periodicità una campagna di rilevamento per la misura delle concentrazioni al suolo – immissioni” [42]. Ebbene l’Arpa di Brescia, a dieci anni di funzionamento dell’inceneritore,  non si è mai dotata di una propria “apposita struttura tecnica qualificata” e neppure ha mai effettuato alcuna “campagna di rilevamento per la misurazione delle concentrazioni al suolo – immissioni”.
Comunque, dopo l’avvio dell’impianto, non poteva mancare una Commissione per il collaudo insediata dalla stessa Asm, presieduta dal professor  Evandro Sacchi, del Politecnico di Milano e costituita da altri cattedratici, che sancì dopo un anno e mezzo di attività: “Il termoutilizzatore supera la prova sul campo con emissioni […] da premio”.[43] Ma Evandro Sacchi non era proprio un osservatore indipendente avendo fatto parte della Commissione tecnico-scientifica costituita da Asm nel 1993 e che elaborò il progetto dell’inceneritore.
L’operazione promozionale, sostitutiva della mancata valutazione d’impatto ambientale[44], si concluse infine con la pubblicazione delle relazioni di alcuni docenti universitari[45], appositamente convocati presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Brescia il 5 maggio 1999, con la quale si sarebbe inteso portare al livello massimo l’escalation di performance eccellenti registrate dall’impianto fin dal suo avvio. Il compito di porre il timbro della scienza sulla validità ambientale dell’impianto Asm veniva affidato in particolare al professor Antonio Ballarin Denti, oggi professore di fisica dell’ambiente dell’Università cattolica di Brescia,  allora titolare della cattedra di controllo degli inquinanti dell’Università di Milano, lo stesso che, nella veste di esponente della Fondazione Lombardia per l’Ambiente, nel 1994 aveva organizzato, con l’Istituto “Mario Negri”, il convegno sulla “termoutilizzazione dei rifiuti”, di cui si è già detto (notare il neologismo copyright Asm)[46] e che sarà poi consulente della stessa Asm per l’elaborazione nel corso degli anni del Rapporto di sostenibilità del gruppo Asm.
Lo studio sulle emissioni prodotto dal  professor Ballarin Denti era basato su di un modello matematico che considerava il livello di emissioni indicato come limite accettabile dalla normativa vigente e recepito nel progetto, la deposizione degli inquinanti al suolo, il livello medio della concentrazione attuale nei suoli di Brescia (operazione peraltro alquanto discutibile sul piano della valutazione del rischio) e i limiti massimi previsti dalla normativa vigente (ma, pur essendo la pubblicazione del marzo 2000, veniva  “ignorato” il D. M. 471/1999, che introduceva limiti molto più restrittivi) e giungeva alla conclusione che occorrerebbero dai 1200 ai 12600 anni per inquinare fino a saturazione i suoli, almeno per quanto riguarda mercurio, cadmio, piombo e diossine[47].   Insomma, sembrava “scientificamente” provato che l’inceneritore fosse sostanzialmente innocuo all’ambiente, sottovalutando dati già allora evidenti, di una grave contaminazione da diossine e PCB in una parte della città di Brescia a sud dell’industria chimica Caffaro, unica produttrice nazionale di PCB[48]. 
Venendo all’oggi, dunque,  l’ingegner Renzo Capra, presidente di Asm, può così affermare che il proprio inceneritore avrebbe emissioni paragonabili a “60 auto diesel”[49] affermazione propagandistica basata su quella, presunta scientifica, per cui inciderebbe per uno 0,…% sulle polveri fini presenti nell’aria di Brescia. Quest’ultima è la sorprendente conclusione a cui giunge uno studio[50] “confezionato in casa” dall’Assessorato all’Ambiente del Comune di Brescia,  azionista di maggioranza di Asm, e finanziato dalla stessa Asm con un fondo concesso all’Assessorato “verde”, in cambio del sì alla terza linea dell’inceneritore[51]; studio avallato dall’università di Brescia, Dipartimento di Elettronica per l’Automazione di Ingegneria, la cui competenza in tema ambientale risulta oscura. Sta di fatto che questa è diventata la “Verità”, comprovata purtroppo da esponenti dell’Università di Brescia (professoressa Giovanna Finzi, ingegner Marialuisa Volta) che a tutt’oggi non si sono mai premurati di chiarire il loro ruolo, quando vengono chiamati in causa per ammantare simili affermazioni con l’autorità della scienza accademica.
In verità questo studio, anche ad un’analisi superficiale, presenta dei limiti macroscopici.
Innanzitutto lo studio, per ridurre la rilevanza delle emissioni dell’impianto, considera un’area di 30 Km di lato, pari a 900 Km2, mentre le emissioni dell’inceneritore ricadono in massima parte in un area ben più ristretta, che va da un minimo di 2 a un massimo di 8 km di distanza, a seconda delle direzioni,[52] cioè mediamente pari a circa 100 Km2 (e già con questo “trucco” la percentuale emissiva  si riduce di circa 10 volte).
In secondo luogo si considerano solo le polveri misurate ai camini, in realtà polveri grossolane (PTS), in gran parte trattenute ovviamente dai filtri a maniche, e non le diverse emissioni (ossidi di azoto, ossido di carbonio, di zolfo, acido cloridrico, ammoniaca, ecc.) che determinano la formazione, a contatto con l’atmosfera, in grande quantità, di particolato secondario ultrafine (PM2,5 e PM0,1). Questo particolato, del tutto ignorato dallo studio in questione, risulta essere quello più pericoloso per la salute umana, come attestato da una letteratura scientifica ormai consolidata,[53] ed  in particolare dalla ricerca europea nota come CAFE 2005:[54] questa evidenzia come gli ossidi di azoto a contatto con l’aria vengano trasformati con un fattore 0.8 in particolato secondario PM2,5, che questo PM2,5  è direttamente collegato ai disturbi della salute (malattie cardiocircolatorie, respiratorie, tumori al polmone) e che quindi gli  ossidi di azoto dovrebbero essere ridotti del 50%, ridimensionando le emissioni. Inoltre studi recenti hanno messo in evidenza come le particelle ancora più piccole, inferiori ad 1 micron, PM0,1 dette anche nanopolveri, presenti in grandi quantità nel particolato secondario degli inceneritori,  siano estremamente pericolose per la salute umana.[55]
Come sappiamo è certificato dall’Arpa che dai camini dell’inceneritore escono ogni anno circa 643 tonnellate di sostanze che sono precursori accertati di particolato ultrafine (400 di ossidi di azoto, 110 di ammoniaca, 78 di acido cloridrico, 55 di ossido di zolfo)[56].
Con procedure pressoché analoghe lo studio conclude che il contributo alle emissioni di diossine in ambiente dell’inceneritore di Brescia sarebbe pari allo 0,02% (sic!).[57]

 I modelli matematici degli scienziati a confronto con la realtà*

Consideriamo innanzitutto le PM10. Che la realtà fosse ben  diversa dalla propaganda Asm era deducibile anche da quanto veniva evidenziato dalle centraline di monitoraggio dell’Arpa. L’unica centralina destinata a rilevare le PM10 installata nella zona Sud, quella adiacente all’inceneritore, quando era in funzione nell’anno 2001 in via Bettole, segnalava 157 giorni di supero del livello, allora,  di attenzione, ma ora di allarme (50 mg/m3), mentre erano “solo” 67 i giorni di supero  per la centralina “Broletto” collocata in centro storico in zona a traffico limitato.[58]
Fu così che la centralina di via Bettole  venne disattivata senza alcuna spiegazione. Ebbene, nonostante questa grave carenza del sistema di monitoraggio, la centralina del Broletto nel 2005 ha rilevato 142 giorni di supero della soglia di allarme (50 mg/m3), per cui, ipotizzando una proporzionale sottostima come nell’anno 2001 delle concentrazioni reali della zona Sud, Brescia oltrepasserebbe di gran lunga il numero di giornate di superi registrati a Milano, pari a 154 giorni, collocandosi al primo posto negativo della graduatoria regionale. Un’ulteriore prova della sottostima delle centralina del Broletto viene fornita dalla stessa Arpa[59]: tra il 28 gennaio e il 27 marzo 2005 fu collocata una centralina mobile di traffico nei pressi della tangenziale Sud di Brescia, quella dell’inceneritore,  che rilevò una media di PM10 di 79 μg/m3 rispetto ai 60,8 μg/m3 rilevati per lo stesso periodo dalla centralina del Broletto[60], che conferma quindi una sottostima di circa il 25%.
A questo punto, il fatto che Brescia goda della peggiore qualità dell’aria della Lombardia (e quindi forse d’Europa) risulterebbe incomprensibile se si accreditasse quanto viene irresponsabilmente pubblicizzato dal Comune di Brescia, proprietario di Asm Spa, cioè che i gruppi  termoelettrici e l’inceneritore emetterebbero complessivamente meno dell’1% delle PM10 dell’area di Brescia[61].
Comunque, nonostante i palesi e colpevoli tentativi di nascondere la gravità reale dello stato dell’aria a Brescia, l’Arpa non può non constatare che la situazione dal 2002 è costantemente peggiorata: il valore limite per la protezione della salute umana (50 μg/m3) superato per 100 giorni nel 2002 è stato oltrepassato per 149 giorni nel 2005[62] e per 166 giorni nel 2007,[63] quando ai sensi del DM 60/2002 non dovrebbe essere superato per più di 35 giorni.
A certificare che la realtà è opposta a quella raccontata da Asm, Comune ed Università di Brescia, è uno studio dell’Apat del Ministero dell’Ambiente.[64] L’Apat nazionale, un po’ più indipendente da Asm che non il Comune di Brescia, è quanto mai esplicita nell’imputare al sistema industriale (comprensivo del teleriscaldamento alimentato dalle centrali termiche e dall’inceneritore Asm) le maggiori quote di inquinamento dell’aria:
Le città di Venezia, Taranto, Livorno e Brescia sono caratterizzate da un forte contributo dovuto agli impianti industriali. Nel caso di Brescia è rilevante l’apporto del teleriscaldamento (incluso nel macrosettore aggregato industria).
E l’Apat quantifica il contributo delle emissioni industriali agli ossidi di azoto (NOx) nell’aria di Brescia in circa il 60% del totale mentre quello delle PM10 è superiore addirittura al 70% (gli ossidi di zolfo oltre il 90%). Se quindi si tiene conto che  le emissioni degli altri 158 camini industriali censiti dal Comune assommano a 148.754 kg/anno di NOx[65], mentre il solo polo energetico Asm ne emetterebbe 1.480.400 (1.139.200 dalle centrali a carbone e ad olio e 341.200, l’inceneritore, dato quest’ultimo in verità sottostimato)[66] si comprende come l’inceneritore di Brescia abbia un impatto rilevante sulle emissioni di NOx e quindi di PM10. In sostanza quasi il 90% delle emissioni di NOx di origine industriale, e circa il 50% del totale comprensivo del traffico, sono prodotte dal polo energetico Asm (di queste oltre il 10% solo dall’inceneritore, almeno il 21% di quelle di origine industriale), altro che “meno dell’1%”, come asserisce lo studio confezionato pro domo sua dal Comune!

 PCB e diossine

Vediamo infine il problema controverso dei microinquinanti, in particolare PCB e diossine.
Uno dei punti forti del “modello Brescia” è che, a differenza della Campania, grazie alle efficienti tecnologie impiegate, i rifiuti non creerebbero particolari problemi sanitari o danni ambientali evidenti. In effetti a Brescia vengono mandati allo smaltimento più o meno  gli stessi quantitativi di rifiuti urbani della Campania, ovvero 1,1 kg/die/ pro capite, mentre sono state tumulate nel territorio decine di milioni di tonnellate di rifiuti speciali, scorie industriali soprattutto,  e ancora oggi se ne importano milioni di tonnellate/anno.
Insomma Brescia, come la Campania, presenta una spiccata vocazione per i rifiuti[67], con la differenza che a Brescia questi sono “smaltiti” in impianti fra i più “moderni”. Sennonché “smaltimento” è in verità un termine ampiamente ingannevole: come si è visto anche nel caso dell’inceneritore, i rifiuti, sottoposti a particolari trattamenti, anche termici, non spariscono nel nulla, si trasformano in altre sostanze, in certi casi più tossiche, e quindi sono allontanati dagli occhi favorendo la rimozione del problema e l’illusione di una soluzione definitiva.
Questa è la differenza che balza maggiormente in evidenza nel caso Brescia, cioè che i rifiuti non sono per strada e che vi è una pletora di impianti e piattaforme tecnologiche per lo smaltimento. Eppure a Brescia stranamente vi sono inquietanti analogie con la Campania: nel latte di aziende  dei dintorni della città si è recentemente scoperta una presenza di diossine fuori norma; si nota inoltre un’elevatissima e anomala incidenza di tumori al fegato, due volte la media nazionale, esattamente come in Campania[68]. Ma il Registro Tumori dell’Asl insiste  nel sostenere che tutto ciò è dovuto all’eccesso di consumo di alcol da parte di bresciani ed a degenerazioni di epatiti virali[69]. Va segnalato che l’ing. Renzo Capra, presidente di Asm, ha fatto parte del Comitato scientifico del Registro tumori dell’Asl, di cui è anche finanziatore, finché, in seguito alle proteste degli ambientalisti, recentemente l’Asl ha pensato bene di lasciarlo fuori[70]. Ma ad un’analisi più attenta sembra difficile escludere una qualche responsabilità dell’inquinamento ambientale nell’alta incidenza tumorale che in generale si registra nel Bresciano.
Ora, di fronte alla diossina nel latte delle aziende operanti a sud dell’inceneritore, emersa sul finire del 2007,  le versioni ufficiali che le autorità si sono affrettate a fornire tendono ad assolvere pregiudizialmente l’impianto Asm. Una sorta di atto di fede.
L’inceneritore sarebbe estraneo, perché le diossine sarebbero originate da mangimi acquistati in altre zone, come avrebbe imprudentemente dichiarato il Presidente di Asm, ing.  Renzo Capra “[…] è stato accertato che la colpa è di mangimi provenienti da fuori” [71]. Sennonché sarebbe risultato che le 18 aziende della zona sud di Brescia, che avevano le diossine nel latte al di sopra dei limiti raccomandati dall’Ue per la tutela della salute (2 pg/gr di grasso), nel momento in cui hanno smesso di alimentare le mucche con i propri prodotti vegetali, siano rientrate nella norma[72].Venuta a mancare simile argomentazione, si ripropone la versione buona per ogni evento, cioè che la colpa sarebbe dell’inquinamento storico, precedente alla costruzione dell’inceneritore:
Quel che è certo secondo Brunelli [Assessore all’Ambiente del Comune di Brescia dei Verdi. nda] è che bisogna guardare altrove rispetto all’inceneritore «perché affermare che l'inquinamento del terre­no è dovuto al termoutilizzato­re non ha senso, dal momento che è stato dimostrato [dallo stesso Comune, proprietario di Asm nda]  che le diossine emesse nell'arco di dieci anni di attività non rie­scono ad accumularsi e pene­trare significativamente nel terreno, perché presenti in quantità trascurabile, e soprat­tutto con effetti ridotti perché nel tempo si modificano, una volta emesse nell'atmosfera». Guardare altrove, dunque, e per questo Brunelli suggerisce di concentrare l'attenzione sul­la storia industriale di Brescia, dal secolo scorso e anche pri­ma, quando ancora non esiste­vano sistemi e norme per limi­tare i danni delle emissioni am­bientali.[73]
Quindi vengono citati i campionamenti del territorio bresciano (città e comuni dell’hinterland), svolti negli anni ’94, ’96 e ’97 a cura dell’Asl di Brescia, finalizzati a conoscere lo stato dei suoli prima dell’avviamento dell’inceneritore, che avrebbero segnalato “la presenza di tracce di inquinanti (PCB e metalli pesanti)  al di sopra dei limiti di legge, in un range, per quanto attiene i PCB, tra i 20 e i 200 μg/kg di terreno”.[74]
Se ciò fosse stato vero, cioè se fin d’allora si avesse avuta consapevolezza che i terreni attorno all’inceneritore erano già contaminati, un normale principio  di precauzione avrebbe dovuto indurre il Comune di Brescia a bloccare la costruzione del proprio inceneritore (terminata nel 1998) in quell’area, assolutamente inidonea ad ospitarlo, visto che dallo stesso vengono emessi PCB, diossine e metalli pesanti.
Comunque è opportuno ricordare che il “bianco” fatto allora negli  anni ’94, ’96 e ’97  attorno al costruendo inceneritore doveva servire a verificare periodicamente come la situazione potesse mutare con l’impianto funzionante, altrimenti sarebbero stati soldi e risorse buttati al vento (o meglio il solito fumo negli occhi della popolazione e degli ambientalisti!). In effetti così era previsto nelle stesse conclusioni del secondo rapporto dell’Asl di Brescia del 1998, relativo alle campagne 1996 e 1997, che recitava testualmente:
[...] dovrà essere proseguita l’opera di monitoraggio ambientale dal punto di vista generale attraverso: - periodico  ricampionamento dei punti della zona attorno all’impianto finora prelevati negli anni 1994 (gennaio)  - 1996 (gennaio) e 1997 (dicembre); in tal senso il prossimo campionamento è prevedibile per la fine 1999 al termine del periodo di esercizio provvisorio [dell’inceneritore].
Non solo. Come già si è ricordato, la  Delibera G. R. L. n. 40001 del 2 agosto 1993, che autorizzava la costruzione dell’inceneritore, all’Allegato B5-1 prescriveva testualmente che “la struttura di controllo [Arpa nda] dovrà effettuare con periodicità una campagna di rilevamento per la misura delle concentrazioni al suolo – immissioni”.
Ebbene, dopo 10 anni di funzionamento dell’inceneritore e di accumulo al suolo di PCB e diossine non biodegradabili, non è stato fatto assolutamente nulla, né a “fine 1999” né dopo, forse proprio perché si temono sorprese non gradite.
Eppure, da parte delle Associazioni ambientaliste informali che si sono sempre battute per la tutela delle salute dei cittadini e che hanno mantenuta ferma la critica all’inceneritore, più volte queste indagini sono state sollecitate alle autorità competenti.[75]
Ma non se ne fece nulla, in attesa che scoppiasse il caso del latte alla diossina.
Anche per questo, oggi, gli atti di fede sulla bontà dell’impianto non sono credibili,  soprattutto da parte di coloro che ostentano di essere pragmatici e non ideologici: ebbene, dovrebbero semplicemente pretendere che si faccia, in modo sistematico e continuativo, una nuova campagna di monitoraggio, sia con prelievi sui terreni circostanti l’inceneritore, compresa la famosa zona Sud e Sud-Est colpita dal latte alla diossina, sia con campionatori passivi, come da anni chiedono alcuni ambientalisti, inascoltati.
In particolare sono necessarie almeno due campagne di prelievi sui terreni nei “punti della zona attorno all’impianto [di incenerimento] prelevati nel 1994, 1996, 1997” cioè nella zona Sud Sud-Est, di Brescia, ripetendo la stessa metodologia, al fine di poter compiere un indispensabile confronto tra la situazione attuale, dopo 10 anni di funzionamento dell’inceneritore, e quella rilevata ante operam.
Finché queste indagini non vengono completate e rese pubbliche, tutti sono legittimati a ritenere che le emissioni dell’inceneritore siano tutt’altro che estranee alla diossina nel latte.
Del resto, non pochi sono gli indizi a carico dell’inceneritore. In verità  vi potrebbe essere un’altra fonte sospetta, che potrebbe rappresentare una concausa, cioè le acciaierie. Sennonché questi impianti hanno generalmente camini molto bassi (20-30 metri), le cui ricadute, quindi, sono molto circoscritte e difficilmente possono coinvolgere 18 aziende agricole. L’inceneritore, invece, con un camino di 120 metri, diffonde le emissioni in un raggio di alcuni chilometri. In ogni caso, come più volte è stato sollecitato, si tratta di compiere analoghe indagini sui terreni attorno all’Alfa Acciai e ad altri impianti metallurgici “sospetti”.
Infine vanno verificate le effettive emissioni di diossine e PCB dall’inceneritore. Le diossine misurate 2-3 volte l’anno in regime “perfetto” di funzionamento, sono risultate presenti, ovviamente, ma al di sotto dei limiti di legge per m3 .
Infine, è recentissima, una novità che getta una luce inquietante sull’intera vicenda: la presenza di elevate concentrazioni di PCB e diossine nell’aria di Brescia. I dati sono stati resi noti il 20 marzo 2008, e sono relativi ad  una campagna di rilevamento delle diossine, PCB e alcuni metalli nell’aria di Brescia, effettuata tra il 2 ed il 21 agosto 2007, cioè nel periodo feriale, e promossa dall’Istituto superiore di Sanità[78]. Tutte le misure  dimostrano una situazione di inquinamento da diossine diffuso e rilevantissimo (media di 83 fg/m3), molto superiore alla situazione estiva di Mantova (4,42 – 6,24 fg/m3) e di Augsburg in Germania (14-15 fg/m3), doppia del valore dell’area urbana di Milano, in estate, (39,75 fg/m3, Fanelli 1997), di gran lunga superiore alle concentrazioni medie annue rilevate nell’aria di Firenze (7,3 – 19,7 fg/m3, Arpa Toscana 1996-2000),  addirittura superiore a quella rilevata a Taranto nei dintorni della grande acciaieria Ilva, nel giungo 2007 (38,4 - 67,8 fg/m3 – Arpa Puglia 2007).  Al dato di Brescia si deve aggiungere un valore medio di 25 fg/m3 dovuto al contributo di tossicità (TEQ) dei PCB-diossina simili (83+25=118 fg/m3) che contribuisco quindi in modo tutt’altro che trascurabile alla tossicità complessiva (Si noti che a Taranto tale contributo oscilla tra 1,9 e 23,4 fg/m3 – Arpa Puglia 2007).
I PCB totali rilevati, inoltre, sono estremamente alti ( 1.008,76 – 8.723,90 pg/m3) in tutti i campioni.
In generale, quindi,  da questa prima campagna di indagine emerge che l’aria di tutto il territorio cittadino risulta fortemente contaminata da diossine e PCB. Va rimarcato, nel caso di Brescia, che in agosto, periodo del rilevamento, il traffico veicolare è notevolmente ridotto e le acciaierie, altra possibile fonte di immissione, sono ferme. Nella città di Brescia rimane in funzione a pieno regime solo l’inceneritore Asm, fonte pacificamente riconosciuta di immissione in ambiente di diossine e PCB (anche se il Comune di Brescia, proprietario dell’impianto, come abbiamo visto, sostiene che le quantità siano irrilevanti). Le conclusioni degli Enti promotori dell’indagine non sono condivisibili: ritenere che i dati rappresentino una situazione “normale per area fortemente antropizzata” è scorretto in quanto, in considerazione del periodo di agosto  nel quale è stata effettuata la campagna,  emerge una situazione molto più inquinata e critica rispetto ad aree utilizzabili per confronto. Il termine “antropizzata” è inoltre un eufemismo fuorviante ed inaccettabile, perché non sono gli umani di per sé a produrre diossine, ma ben precisi apparati artificiali, impianti industriali in particolare,  che, nel caso in questione e per quel periodo di agosto, anche sulla base della casistica prospettata nell’indagine, sono essenzialmente riconducibili all’inceneritore Asm-A2A. A questo punto è difficile escludere che questo sia imputabile di tale straordinaria presenza di diossine e PCB nell’aria di Brescia. Ma, poiché le diossine dall’aria sono destinate a depositarsi sui terreni, è inevitabile che le stesse entrino nella catena alimentare, nel foraggio e dunque nel latte. Come si vede, alla luce di questi dati sull’inquinamento dell’aria,  anche la vicenda del latte alla diossina acquisterebbe una nuova valenza, che sembrerebbe chiamare in causa ancora una volta l’inceneritore, che a priori non può non essere considerato fra le cause possibili.
È superfluo ripetere, quindi, che le ulteriori campagne di misurazioni previste devono  essere integrate allo scopo di individuare specifiche fonti attive che determino una situazione di inquinamento allarmante. È necessario che una campagna venga effettuata effettivamente nel periodo invernale (dicembre), che venga verificato, come previsto, l’inquinamento anche in aree più lontane dall’abitato come già indicato dal Comune ( monte Maddalena), e che a ciò siano associate anche misurazioni nell’area in zona sud-ovest, a S. Polo e nei dintorni dell’inceneritore, dove insistono fonti di immissione importanti  tutt’ora in attività.

Conclusioni

Come è stato ampiamente dimostrato, il “modello Asm” di Brescia fa acqua da tutte le parti.  L’inceneritore produce all’infinito enormi quantità di rifiuti da tumulare in discarica e altri dispersi nell’aria. È nemico della raccolta differenziata, di fatto a Brescia addirittura sotto zero. È nemico del protocollo di Kyoto, perché emette circa 1 milione di tonnellate/anno di CO2 in più rispetto al riciclaggio. Anche sul piano energetico, comporta sprechi pari a circa 1000 GWh/anno rispetto al riciclaggio.  È una macchina inoltre antieconomica, che si regge solo sui truffaldini contributi Cip6.
Sicuramente, infine,  crea problemi per le emissioni in ambiente. La controversia se queste siano accettabili, perché relativamente contenute, o incompatibili con la tutela della salute umana, appare dunque oziosa. Poiché si tratta di una macchina sbagliata per il trattamento dei rifiuti, inefficiente sul piano energetico ed economico, non ha alcun senso accettare anche solo un possibile od ipotetico rischio per la salute umana da un  impianto inutile se non dannoso.
Ci si potrebbe interrogare perché tanti esponenti della scienza accademica e non si siano così alacremente impegnati a “dimostrare” le virtù di una tecnologia che ci allontana da una corretta gestione del problema, che possiamo così riassumere: negazione dello stesso concetto di rifiuto, da considerarsi sempre materia preziosa da riusare, recuperare, rigenerare, evitandone qualsiasi dispersione in ambiente. Peraltro, anche dal punto di vista tecnologico, oltre che occupazionale, questa filiera “virtuosa” sarebbe di straordinario interesse. Purtroppo ha il limite di presentarsi nella forma di iniziative sociali, economiche ed imprenditoriali, disperse sul territorio, una sorta di  costellazione di piccole unità, interessanti per la partecipazione democratica ed una cittadinanza attiva, ma incapaci di fare “lobby”.
Attività di lobby in cui è campione il complesso industriale e tecnologico dell’incenerimento, espressione di grandi imprese (sia produttrici degli impianti, sia multiutilities che li gestiscono), il quale ha la forza di imporre i suoi interessi, contro il bene comune rappresentato dall’ambiente e dalla salute dei cittadini, ma anche da un futuro vivibile per le generazioni che verranno.
Purtroppo la storia ci insegna che quando la scienza si è messa al servizio dei poteri forti ne sono derivati guai per tutti. Le lezioni del passato sono molte,[79] ma, sembra, ancora non sufficienti.



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